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ITINERARI - SPAZIO E TEMPO - LA PERCEZIONE DELLO SPAZIO

INTRODUZIONE

Ogni essere vivente è in relazione con il mondo esterno attraverso le informazioni raccolte dagli organi di senso (i recettori). Una rappresentazione «ingenua» di questo processo immagina, per esempio, che l'occhio lavori come una macchina fotografica, che le vie ottiche trasportino l'immagine raccolta fino al cervello e che qui avvengano le successive elaborazioni, diventando percezioni coscienti. Le cose invece sono un po' più complicate. Nel passaggio dall'organo di senso alla corteccia cerebrale, le informazioni esterne subiscono due processi contemporanei. Da un lato esse vengono codificate in maniera opportuna per poter essere trattate dal sistema nervoso: una pressione sulla pelle o una intensità luminosa, diventano segnali elettrici, capaci di propagarsi da una cellula nervosa (neurone) ad un'altra. Dall'altro, questi segnali vengono elaborati già mentre si propagano, di modo che al cervello non arriva una semplice mappa del mondo esterno, ma una sua rappresentazione in cui sono già state messe in evidenza molte caratteristiche salienti.
Ci sono tre tipi di percezione dello spazio: lo spazio tattile, quello visivo e quello uditivo.
Lo spazio tattile è quello che possiamo esplorare direttamente con la nostra pelle, grazie ai recettori cutanei. Questo tipo di esperienza è strettamente intrecciata con quella visiva e uditiva, ma occorre del tempo perché un tale legame si instauri. I neonati infatti afferrano, palpano e mettono in bocca tutto ciò che possono raggiungere con le mani senza coordinare ancora queste attività spaziali con la vista e con l'udito.
La fonte principale delle informazioni relative allo spazio è il sistema visivo: per avere un'idea della sua importanza basti ricordare che quasi il settanta per cento della corteccia cerebrale dell'uomo è dedicata al trattamento dell'informazione visiva. Dalle vie ottiche dipende anche il modo in cui il cervello umano ricostruisce la profondità. I meccanismi per far questo sono molti e sono state indicate una dozzina di maniere diverse con cui, a partire dalle percezioni visive, che sono a due dimensioni, ci formiamo un'idea dello spazio esterno a tre dimensioni.
Il principale tra questi «trucchi» è quello chiamato disparità binoculare: il fatto di avere due occhi permette all'uomo non soltanto di tenere sotto controllo una zona più ampia, ma anche di confrontare le immagini raccolte dall'occhio destro con quelle raccolte dall'occhio sinistro. Quando fissiamo un oggetto posto davanti a noi, ad esempio una matita appoggiata verticalmente alla punta del naso, le immagini raccolte dai due occhi sono diverse, perché ognuno di loro guarda lo stesso oggetto da angoli diversi. Nell'immagine dell'occhio destro la matita non appare centrale, ma spostata verso sinistra e il contrario avviene per l'immagine raccolta dall'occhio sinistro. Le immagini dei due occhi sono tanto più differenti quanto più vicino è l'oggetto fissato. Il sistema visivo è in grado di calcolare esattamente questa differenza (chiamata appunto «disparità binoculare») e la utilizza per trasformarla in una valutazione della profondità e della distanza relativa degli oggetti. Allo stesso meccanismo ricorrono quelle macchinette inventate dall'uomo per presentare immagini in tre dimensioni (stereoscopi). Si guarda attraverso una specie di cannocchiale e ad ogni occhio viene presentata una diapositiva ripresa da angolazioni diverse.
La disparità binoculare funziona soprattutto per distanze comprese tra i 30-40 cm ed i 5-6 m dall'osservatore; oltre questo intervallo non è più efficace. Per distanze più grandi si pensa che entrino in gioco altre tecniche di misura della profondità: per esempio il cervello potrebbe utilizzare l'informazione relativa alla contrazione del cristallino dell'occhio. Il cristallino infatti varia la propria curvatura per mettere a fuoco l'immagine sulla retina e l'intensità di questa contrazione dipende dalla distanza dell'oggetto messo a fuoco. O ancora il sistema visivo potrebbe tenere conto della convergenza e del parallelismo dei due globi oculari. Infatti quando si osservano oggetti lontani gli assi dei globi oculari si dispongono parallelamente, mentre convergono sugli oggetti vicini: i movimenti che essi debbono fare per aggiustare la visione informano il sistema nervoso centrale della distanza a cui si trova l'oggetto osservato.
Tutti questi meccanismi sono legati alla visione binoculare. Ma anche persone con un occhio solo riescono a muoversi bene nello spazio che le circonda, ad afferrare gli oggetti che loro servono, a giudicare che cosa è più lontano e che cosa è più vicino. Questo è possibile grazie alla conoscenza e alla familiarità con l'ambiente in cui viviamo. Continuamente infatti, anche se inconsciamente, facciamo delle ipotesi relative agli oggetti nello spazio, basate sulla nostra esperienza precedente. Per esempio se vediamo due figure, una delle quali «copre» parzialmente l'altra, tendiamo a dire che questa è «davanti». Se osserviamo un panorama in cui alcuni elementi sono via via più fitti, facciamo l'ipotesi che si tratti di linee fisicamente equidistanti che si infittiscono per effetto della distanza crescente. Se due oggetti della stessa forma, che proiettano sulla retina dell'occhio immagini della stessa grandezza, ci vengono presentati in un contesto prospettico, li interpretiamo come due oggetti a distanze differenti.
Il riflesso posturale (o di posizione) è una complessa catena di stimoli che nell'uomo serve al mantenimento della posizione eretta attraverso il mantenimento del tono muscolare. Al mantenimento della postura è importante anche l'apporto degli occhi; ne è una facile prova la difficoltà che si prova a stare eretti ad occhi chiusi. Esiste una relazione assai stretta fra i muscoli oculari e l'apparecchio vestibolare. Quando quest'ultimo è fortemente sollecitato occorrono sforzi notevoli per avere una visione corretta.

L'APPARECCHIO VESTIBOLARE

L'uomo è in grado di avvertire la propria posizione nello spazio e di compiere movimenti grazie alla continua stimolazione che proviene non solo dallo spazio esterno sui recettori sparsi sulla superficie del nostro corpo (esterocettori), ma anche dall'interno dell'organismo stesso sui recettori situati nella compagine dei segmenti dello scheletro, nelle articolazioni, nei muscoli (propriocettori). Per il senso specifico della posizione del capo esiste un particolare propriocettore situato all'interno dell'orecchio che si chiama apparecchio vestibolare. L'apparecchio vestibolare e gli altri propriocettori raccolgono la sensibilità profonda e producono riflessi di postura e di movimento. Forniscono cioè indicazioni sulla posizione reciproca delle varie parti del corpo, sulla situazione dell'intero organismo nello spazio e sull'attività dei muscoli.
La struttura dell'apparecchio vestibolare è abbastanza simile in tutti i vertebrati, dai pesci ai mammiferi. Ma mentre nelle forme superiori come nell'uomo, ha solo funzione di recepire le sensazioni statiche, in altre forme, come nei pesci, serve anche a percepire i suoni ed a discriminarli secondo la loro acutezza. L'apparecchio vestibolare dei primati consta di tre canali semicircolari ripieni di un liquido detto endolinfa e disposti in modo da sfociare in un utricolo. Tutte le pareti interne di queste strutture sono rivestite di epiteli sensoriali a cui giungono terminazioni nervose. Queste sono stimolate dai movimenti del liquido nei canali semicircolari (correnti endolinfatiche) e da quelli di piccole concrezioni calcaree (dette statoliti) contenute nell'utricolo. Tali movimenti sono provocati dalla forza di gravità e dai movimenti di rotazione del capo.
L'apparecchio vestibolare controlla la nostra posizione: è sufficiente una leggera inclinazione del capo (di 2 gradi e mezzo) per stimolare l'organo. Lo stimolo, mediante il nervo vestibolare giunge al sistema nervoso centrale. Da qui parte un nuovo stimolo per i muscoli che si devono opporre con la loro contrazione alla variazione di posizione. Se per esempio cadiamo in avanti, verranno sollecitati i muscoli dorsali del tronco e degli arti inferiori. Naturalmente anche i propriocettori situati in questi muscoli sono responsabili di questa contrazione.

LA MISURA

Quando osserviamo degli oggetti un'operazione che viene spontaneo di fare è di mettere a confronto le loro dimensioni. La mano di un bambino, diciamo, è più piccola della mano di un adulto; un autobus è più lungo di un'automobile; Carlo è più alto di Giovanni, e così via. Nessuno di questi oggetti, però, è grande o piccolo in assoluto. Basta cambiare riferimento ed ecco che ciò che era più grande diventa più piccolo o viceversa: un'automobile è più lunga di una motocicletta, Carlo è più basso di Antonio, ecc. Il fatto è che ogni cosa ha numerose grandezze di riferimento, ognuna delle quali può essere assunta come unità di misura per tutte le grandezze della sua stessa specie. Sotto questo aspetto sarebbe del tutto indifferente, per esempio, calcolare la quantità di petrolio in litri piuttosto che in barili, ed è solo per convenzione che ci si è decisi a preferire questa seconda unità di misura alla prima.
Il compito di stabilire le unità di misura e di farle rispettare è sempre stata una prerogativa del potere, per il quale ha rappresentato e rappresenta uno strumento fondamentale di controllo sulla società: basta riflettere sul fatto che la riscossione delle imposte (o anche il semplice accertamento delle ricchezze dei privati) passa attraverso innumerevoli operazioni di misura alla cui regolamentazione le autorità pubbliche non possono rinunciare senza rinunciare insieme alla propria capacità di imporre tasse e balzelli. Non è un caso che in certi paesi esistesse in passato una «mina del vescovo», ossia un'unità di misura per cereali specificamente usata per il pagamento da parte dei fedeli delle decime dovute alla Chiesa, diversa dalla «mina mercantile» usata negli scambi tra privati: non importa che l'una fosse più grande o più piccola dell'altra; interessa invece notare come in questi casi l'unità di misura riflettesse direttamente il rapporto tra l'autorità e i suoi dipendenti.
La molteplicità dei centri di potere dotati della capacità di legiferare in materia di misure e soprattutto l'estrema varietà delle attività di lavoro che, implicando misurazioni più o meno esatte, tendevano a costruirsi propri sistemi di misura, hanno determinato spesso situazioni di confusione. In verità le differenze tra le misure in uso in diverse aree geografiche o in diversi settori di attività raramente hanno creato difficoltà agli scambi ed alla produzione, di cui semmai esprimevano specificità e autonomie; ne hanno però create moltissime alle amministrazioni pubbliche centrali, le quali hanno ripetutamente e con tutti i mezzi cercato di imporre criteri di uniformità.
La necessità di adottare unità di misura comuni (o almeno di avere esatti parametri di conversione) e quindi di accordarsi sui relativi campioni, oltre che nel settore della pubblica amministrazione, è stata particolarmente sentita in quello della ricerca fisico-matematica, il che ha contribuito a dare alle pretese dei Governi un'apparenza di razionalità. Già ai tempi di Pitagora, di Euclide e di Tolomeo se ne era parlato, soprattutto in relazione agli studi cosmologici. Con l'avvento del metodo sperimentale e a partire dalla generazione di Galileo la questione venne riproposta con forza. Il problema di un sistema universale di misure fu però risolto solo al tempo della Rivoluzione Francese quando l'Assemblea Nazionale incaricò una commissione, della quale facevano parte insigni scienziati, di fissare le unità di misura e i campioni delle grandezze da assumere come fondamentali e dalle quali poter successivamente ricavare tutte le altre, chiamate grandezze derivate.
Nel 1791 l'Accademia delle Scienze di Parigi adottò come unità di lunghezza il metro, definito come la decimilionesima parte di quadrante di un particolare meridiano terrestre passante nei pressi di Parigi; la stessa unità sarebbe servita come base per la misura di superficie e di volumi. L'unità di massa fu il chilogrammo, definito come la massa di un decimetro cubo di acqua distillata alla temperatura della sua massima densità (3,98 gradi C). Successivamente venne adottato come unità di capacità il litro, ovvero il volume di un chilogrammo di acqua distillata a 3,98 gradi C, che risultò essere pari a 1,000028 dm cubi. Nasceva in questo modo, istituito con decreto legge del aprile 1795, il Sistema Metrico Decimale. Solo dopo molti anni vennero adottate anche l'unità di tempo, il secondo, e di temperatura, il grado Celsius.
Per alcune di tali unità s'impose la necessità di costruire un campione materiale disponibile in laboratorio; nacquero così nel 1799 il metro campione e il chilogrammo campione. I requisiti che deve presentare un buon campione sono: precisione, accessibilità, riproducibilità e invariabilità. La necessità di disporre di campioni rigorosamente invariabili e riproducibili spinse i primi studiosi di metrologia a ricercare tra le caratteristiche della Terra qualcosa che si prestasse allo scopo; successivamente è stata la fisica a suggerire per alcune delle grandezze fondamentali l'adozione di campioni atomici di elevata precisione.
Ogni qual volta si esegue la misura di una grandezza è necessario valutare l'attendibilità dei risultati ottenuti, ovvero la riproducibilità di tali risultati in successive ripetizioni della stessa misura. Per esempio, eseguendo dieci volte, nelle identiche condizioni, una misurazione, il valore più attendibile sarà la media aritmetica dei dieci valori trovati. Esiste una teoria matematica per assegnare alla media di una serie di misure un errore probabile: questa teoria è nota come la teoria degli errori.

LE GRANDI DISTANZE

Misurare la lunghezza di un oggetto o la distanza tra due luoghi significa trovare quante volte l'unità di misura sta in quella lunghezza o in quella distanza. Il metodo più semplice e più diretto è quello di usare un regolo, che rappresenta l'unità di misura, e calcolare quante volte è necessario riportarlo per coprire l'intera distanza.
Per le grandi distanze o comunque quando non sia possibile una misurazione diretta con il regolo si usano correntemente i metodi trigonometrici.

TRIANGOLAZIONE

Quando di un triangolo si conoscono un lato e due angoli si possono ricavare con una semplice formula trigonometrica le lunghezze degli altri due lati, e cioè anche la distanza desiderata.

PARALLASSE

Un procedimento trigonometrico si usa anche per calcolare la distanza delle stelle, o almeno di quelle più vicine: il metodo della parallasse (dal greco paràllaxis = «spostamento»). Con questo sistema si riesce a misurare mediante opportuni strumenti lo spostamento apparente sulla volta celeste delle stelle più vicine (parallasse annua). Si riesce a calcolare la parallasse delle stelle che distano da noi meno di 100 anni-luce. Più in là anche l'orbita terrestre non rappresenta più uno spostamento sufficiente della base di osservazione.

ECHI

Un altro metodo per calcolare le distanze terrestri è quello degli echi, che consiste nel lanciare un segnale sonoro od elettromagnetico (radio) verso l'oggetto la cui distanza deve essere misurata e nel ricevere il segnale stesso dopo che è rimbalzato, riflesso dall'oggetto. Conoscendo la velocità di propagazione delle onde sonore e dei segnali radio, dal tempo passato tra la partenza del segnale e il ritorno dell'eco si può determinare facilmente la distanza. Il procedimento degli echi sonori (usato soprattutto per misurare le profondità marine) è poco preciso a causa delle variazioni che può subire la velocità del suono. I metodi basati sugli echi elettromagnetici (radar), sono più precisi; le difficoltà qui stanno nel misurare con precisione intervalli di tempo molto piccoli (si pensi che la luce per percorrere un chilometro e mezzo e per ritornare indietro impiega un centesimo di millesimo di secondo!). Ciò nonostante le tecniche elettroniche consentono di arrivare ad approssimazioni di un metro circa.

RADAR

Il radar trova applicazione anche nella misura di piccole distanze astronomiche, come la distanza della Terra dalla Luna. Un segnale radar impiega circa 2,6 secondi per arrivare sulla Luna e rimbalzare poi sulla Terra. Poiché la velocità della luce (e delle onde elettromagnetiche) è di 300.000 km al secondo, la distanza Terra-Luna è uguale a: 1,3 x 300.000 km = 390.000 km (circa).

TEODOLITE

È un apparecchio in grado di misurare gli angoli su un piano orizzontale (angoli azimutali) e su uno verticale (angoli zenitali). è comunemente adoperato in topografia per calcolare le distanze tra punti di riferimento e ogni volta che c'è bisogno di fare una triangolazione. Il teodolite è costituito da un basamento fornito di tre viti per la messa in piano che viene indicato da una livella opportunamente collocata; da un circolo orizzontale graduato detto lembo nel centro del quale è imperniata l'alidada formata da un disco girevole che ruota sul basamento. L'alidada è provvista di un indice per la misura degli angoli orizzontali. Il blocco sostiene un cannocchiale che ruota verticalmente; a un lato del cannocchiale è collocato un circolo verticale detto eclimetro che per mezzo di un indice fisso posto sull'armatura misura gli angoli descritti dal cannocchiale (angoli azimutali). Lo strumento è sostenuto da un treppiede. Se occorre misurare gli angoli di un triangolo ABC, come prima operazione si colloca il teodolite nel vertice A e si verifica la perpendicolarità degli assi e l'orizzontalità dello strumento. Si punta poi il cannocchiale in B osservando di far collimare il centro del reticolo oculare col vertice B; ad esso si fa corrispondere lo zero della scala graduata (lembo); quindi si indirizza il cannocchiale sul vertice C: l'alidada spostandosi indica sul lembo l'angolo di rotazione da B a C. La stessa operazione viene effettuata per conoscere il valore di B. La misura degli angoli zenitali è analoga; in questo caso al movimento verticale del cannocchiale corrisponde lo spostamento dell'eclimetro, misurato dall'indice fisso, che fornisce il valore dell'angolo cercato.

LE GRANDEZZE MICROSCOPICHE

Quando ci si appresta a determinare le dimensioni di corpi molto piccoli (molecole, atomi, particelle subatomiche) ci si trova di fronte a problemi singolarmente simili a quelli che s'incontrano nella misura delle enormi distanze delle stelle e delle galassie: una loro misura diretta non è possibile, ed è necessario calcolarle indirettamente facendo uso di certe ipotesi e di opportuni ragionamenti. Come si può fare per esempio a calcolare quanto è grossa una molecola? Accenniamo ad un metodo che se non è molto preciso ha però il pregio di essere facilmente comprensibile.
Una goccia d'olio posta su una superficie d'acqua si trova in una situazione instabile che non riesce a mantenere: s'allarga continuamente diminuendo sempre più di spessore finché si riduce allo strato più sottile possibile, dello spessore di una sola molecola (d). Se conosciamo il peso e il volume V, che aveva la goccia d'olio, e la superficie S sulla quale s'è allargata, ricordando che il volume si ottiene moltiplicando base per altezza sarà:

V = S x d e quindi: d = V/S.

Le molecole normali hanno dimensioni di 10-8 cm (qualche decimo di milionesimo di mm), ma vi sono molecole giganti (macromolecole) che arrivano a 10-6 cm (qualche decina di milionesimi di mm). Per gli atomi e le particelle elementari le cose si complicano ancora, perché a questi livelli l'idea stessa di dimensione risulta molto sfumata.
È interessante vedere come si arriva a valutare il «raggio dell'elettrone» e che significato bisogna attribuirgli. Innanzi tutto l'elettrone viene immaginato come una sferetta conduttrice cava di raggio R, sulla cui superficie è distribuita uniformemente la sua carica elettrica e. Semplici considerazioni elettrostatiche permettono di esprimere l'energia E dell'elettrone:



Ricordando la formula di Einstein di equivalenza tra massa e energia:



si può esprimere la massa m dell'elettrone come



c'è la velocità (nota) della luce, la carica e e la massa m dell'elettrone sono anch'esse note da altre misure, quindi dalla formula precedente si può ricavare il valore del raggio R:



che risulta circa 3 x 10-13 (3 milionesimi di mm). Ma per trovare questo risultato si son dovute fare delle ipotesi sulla natura dell'elettrone che sappiamo essere non vere: la fisica moderna nega che l'elettrone possa esser considerato semplicemente una sferetta carica. Tuttavia una valutazione di questo tipo può esser utile per aver un'idea delle dimensioni che si possono attribuire alle particelle elementari.
Come s'è visto, pur superando a volte difficoltà inaspettate e pur di non pretendere una precisione assoluta, si possono determinare le distanze tra gli oggetti e la loro estensione. Ora il primo compito della fisica è quello di descrivere i fenomeni naturali nel modo più semplice ed economico. Per fare questo utilizza degli schemi che hanno la funzione d'ordinare e unificare i dati dell'esperienza. Questo lavoro è cominciato fin dalla preistoria. I cacciatori paleolitici dovevano avere una conoscenza quasi immediata del fatto che un mammut fosse «più grosso» di una capra o che le vette dei monti fossero «più distanti» del ruscello dove arrivavano in pochi minuti.
Attraverso un lungo processo d'astrazione l'uomo primitivo passò dalle osservazioni concrete, particolari (come: «questo mammut è più grosso di quella capra», «quel braccio è più grosso di questo dito») al concetto di grandezza. Questo si poté affermare solo quando l'uomo ebbe riconosciuto la proprietà che tutte le cose avevano in comune, proprio perché erano più o meno grosse: l'estensione, cioè il fatto di occupare più o meno «posto», più o meno «spazio». Di qui l'idea che esistesse un'entità contenente tutte le cose e nella quale le cose si potessero muovere liberamente, penetrandola e occupandone piccole porzioni: lo spazio.
L'idea di spazio è un formidabile unificatore delle nostre esperienze ed è indispensabile per qualsiasi tentativo di descrivere la natura; non dobbiamo però dimenticare che la realtà sono gli oggetti che occupano lo spazio e non lo spazio stesso: ossia all'idea che le cose «siano nello spazio» dobbiamo sostituire quella che le cose «formino lo spazio». Le proprietà che attribuiamo allo spazio sono dunque solo un'abbreviazione per indicare le proprietà delle cose. Il cosiddetto spazio euclideo, cioè quello in cui valgono le proprietà geometriche che tutti studiamo a scuola, è una formulazione matematica delle proprietà degli oggetti naturali come sono state ricavate dalla esperienza dell'umanità nel corso dei millenni. Ma il progredire della scienza dal Rinascimento in poi ha ampliato il campo delle possibili esperienze dell'uomo, e nel nostro secolo si è scoperto che le proprietà geometriche delle cose possono essere diverse da quelle che ci appaiono nel campo ristretto della nostra esperienza «naturale».
Così quando si prendono in esame oggetti molto rapidi (con velocità prossima a quella della luce) è utile allargare il concetto di spazio nello «spazio a 4 dimensioni» (oltre a lunghezza, larghezza e altezza la quarta dimensione è il tempo) col quale la rappresentazione degli eventi naturali risulta semplificata. Secondo la teoria della relatività generale di Einstein (che ha ricevuto notevoli verifiche sperimentali) poi, lo spazio fisico per effetto della materia è «curvo» (nel senso che la linea più diritta tra due oggetti non è un segmento di retta, ma una linea curva). Lo spazio ci sembra «piatto» (cioè euclideo) perché nel piccolo angolo dell'universo in cui viviamo (e al quale si riferivano fino a poco tempo fa tutte le nostre osservazioni) la differenza tra spazio curvo e piatto è così piccola da non essere apprezzabile. Succede cioè qualcosa di simile a quello che succede stando sulla superficie terrestre che sembra piana perché la curvatura della terra per una piccola zona è inapprezzabile.

MISURE DI PRECISIONE

Esiste una quantità di strumenti capaci di fornire misure molto precise. Ne illustriamo alcuni tra i più comuni.

Calibro a cursore:

serve per misurare le dimensioni di piccoli corpi che si pongono tra le sue due ganasce (una fissa e una mobile, scorrevole sulla parte fissa del calibro che è graduata in millimetri). è di uso corrente tra i meccanici e, munito di un particolare accessorio, il nonio, consente misure approssimate fino a un decimo di millimetro.

Comparatori:

sono strumenti di precisione adoperati per misurare le dimensioni di pezzi meccanici confrontandole con quelle di un pezzo-campione. Danno misure molto accurate (fino a un centesimo, un millesimo di millimetro o anche più). Sono indispensabili in tutte le produzioni meccaniche di serie dove i pezzi devono avere le esatte dimensioni previste dal progettista per assicurare un regolare funzionamento delle macchine di cui entrano a far parte. L'elevata sensibilità dei comparatori è dovuta soprattutto a delicati congegni di amplificazione, che possono essere di tipo meccanico, ottico, elettrico, ecc.

Palmer:

misura piccoli spessori. è costituito da una piccola vite che ha il passo di mezzo millimetro. Ciò significa che quando la vite fa un intero giro, avanza di mezzo millimetro; la testa della vite è divisa in 50 parti uguali e perciò per ogni gradazione (ogni cinquantesimo di un intero giro) la vite avanza di un cinquantesimo di mezzo millimetro, cioè di un centesimo di millimetro. Sullo stesso principio (detto della «vite micrometrica») si possono costruire strumenti precisi fino a un millesimo di millimetro (un micron), o addirittura un decimo di micron.

Strumenti ottici:

sfruttano una proprietà ondulatoria della luce: l'interferenza dei raggi luminosi. Si tratta di usare due raggi luminosi dello stesso colore puro (cioè della stessa lunghezza d'onda) e coerenti (cioè che vibrano in fase: non è tale ad esempio la luce emessa dalle normali lampadine, perché essa è il risultato delle oscillazioni di tantissimi atomi, quelli che costituiscono il filamento, ognuno dei quali va per conto suo. Nei laser invece tutti gli atomi emettitori di luce sono, per così dire, sincronizzati). I fasci di luce provenienti da due punti A e B si sovrappongono nel punto P, i loro effetti si possono sommare o elidere a vicenda a seconda che le loro onde arrivino in fase o in opposizione di fase. Se il punto P ha la stessa distanza da A e da B, le onde arrivano in fase e P risulta luminoso; se la distanza AP differisce dalla distanza BP di mezza lunghezza d'onda del raggio luminoso le onde arrivano in opposizione di fase e P risulta buio.
Se la distanza AP differisce dalla distanza BP di una intera lunghezza d'onda, le onde arrivano in P ancora in fase e P sarà ancora luminoso e così via. Si può allora misurare la distanza tra due specchi facendo interferire raggi di luce riflessi dai due specchi: è chiaro che la precisione di simili misure sarà almeno di mezza lunghezza d'onda della luce usata, e la lunghezza d'onda della luce varia da 0,8 micron (luce rossa) a 0,4 micron (luce violetta). Con particolari accorgimenti i metodi interferenziali consentono misure precise al centesimo di micron (centesimo di millesimo di millimetro).
Misure ancora più precise si possono realizzare con il microscopio elettronico in cui si usano dei sottili fasci di elettroni per esplorare il campione.
Con il microscopio elettronico e in particolare con la sua versione chiamata «microscopio a scansione a effetto tunnel» si è potuto vedere (e misurare) i singoli atomi della materia.

I MOVIMENTI ORIENTATI

Ogni organismo vivente sottopone l'ambiente che lo circonda a continuo controllo e proprio dalla sua capacità di reagire agli stimoli interni o esterni possiamo valutare la sua vitalità. Una delle principali caratteristiche che derivano dalla capacità di muoversi propria dei viventi è la possibilità che si ritrova già negli organismi unicellulari di compiere movimenti orientati nello spazio.
Secondo la loro diversa funzione, tutti i processi di orientamento che ritroviamo nella scala zoologica, possono essere suddivisi in tre grandi gruppi. Nel primo possiamo far rientrare tutti i meccanismi che permettono all'animale di mantenere stabile la sua posizione nello spazio, indipendentemente dalla località dove si trova. In generale questo avviene grazie a particolari organi di senso ed al contributo che la vista dà al controllo della propria posizione.
Più importanti per i movimenti orientati sono gli altri due gruppi:
a) Orientamento del movimento reso possibile da un sistema fisso di riferimento spaziale. Lo stimolo che comporta un movimento dell'animale fornisce semplicemente le «coordinate» per stabilire la posizione e la nuova direzione assunta, ma non è il traguardo del movimento. L'animale cioè non si dirige verso di esso.
b) Orientamento su di un oggetto. In questi casi la sorgente dello stimolo costituisce il traguardo del movimento. Questo tipo di orientamento è forse il più semplice, o per lo meno si ritrova già nei primi gradini della scala zoologica, ad esempio nei protozoi, animali unicellulari. Gli etologi (dal greco éthos = «costume», sono coloro che studiano il comportamento animale) hanno chiamato queste forme più semplici di orientamento su di uno stimolo o un oggetto tassie (dal greco tàxis = «disposizione») o tropismi (dal greco tròpos = «direzione»).
Su di una stessa specie animale possono agire tropismi di diversa natura: la dafnia, un piccolo crostaceo che vive nelle acque dolci, nuota sulla superficie dell'acqua se l'acquario contiene una certa quantità di anidride carbonica sciolta (tropismo negativo, si allontana cioè dallo stimolo); alla superficie infatti la quantità di ossigeno è maggiore e la respirazione ne risulta favorita. Ma essa è attratta verso la superficie anche da un tropismo positivo verso la luce; e infatti, pur aumentando la quantità di anidride carbonica sciolta nell'acqua, se si illumina il fondo dell'acquario la dafnia nuota verso il basso: la sua propensione per la luce è più forte del disturbo provocato dall'anidride carbonica. Nei tropismi la risposta è sempre la stessa anche se risulta dannosa all'animale. A tutti è noto l'esempio delle farfalle che vengono attratte dalla luce di una candela e che si bruciano alla fiamma.
Per quanto riguarda i processi di orientamento del primo gruppo non esiste una stretta relazione tra lo stimolo e la risposta, anche perché normalmente l'animale sfrutta diverse sorgenti di informazione. Molti pesci ad esempio si orientano contemporaneamente con la gravità terrestre e con la luce. Un fascio luminoso che colpisca il pesce di fianco lo fa ruotare di 90 gradi in risposta, sebbene i suoi recettori di posizione (quelli cioè che avvertono il campo gravitazionale) tendano a riportarlo nella primitiva posizione. Aumentando l'intensità luminosa l'attrazione per la luce aumenta. Può essere diminuita aumentando il campo gravitazionale, per esempio ponendolo in una centrifuga; in questo caso è più forte lo stimolo dei recettori di posizione. Ma c'è ancora un altro fattore che interviene in questo gioco di forze; se il pesce ha fame e vede una preda, segue lo stimolo dei suoi recettori visivi e va in caccia.
Tutti i casi di orientamento a distanza che intervengono nelle migrazioni animali rientrano nel primo gruppo. Spesso ci si trova di fronte a comportamenti assai complessi di cui non si è ancora trovata una spiegazione sufficiente. Molti uccelli sfruttano sicuramente nei loro voli come punto di riferimento delle località geografiche notevoli (catene di montagne, alberi), oppure la luce del Sole mantenendo costante l'angolo tra la direzione del volo orientato ed i raggi luminosi. Altri si orientano invece con le stelle fisse, come si è visto osservando i voli compiuti in un planetario da specie che compiono le tappe di migrazione di notte.
Altri animali sfruttano un campo elettrico o magnetico per il loro orientamento; così ad esempio il volo del pettirosso europeo può essere influenzato da un forte campo magnetico. Durante le sue escursioni giornaliere il ginnarca del Nilo, un pesce a forma di anguilla, che vive appunto nelle zone di acqua torbida di quel fiume, si orienta producendo un campo elettrico: emette una serie di impulsi, circa 300 per secondo, con un voltaggio che va da 3 a 7 volt.

TROPISMI E NASTIE

Le piante sono in grado di compiere movimenti indicati con i termini di tropismi e nastie. Per il fenomeno del tropismo un vegetale riesce ad orientarsi in relazione a stimoli esterni che possono essere la forza di gravità (geotropismo, positivo per le radici e negativo per le parti aeree), le impressioni luminose (fototropismo, positivo per il fusto e negativo per le radici), le sollecitazioni chimiche (chemiotropismo), elettriche (galvanotropismo), di calore (termotropismo), ecc.
Le nastie (dal greco nastòs = «calcato», «gonfio») sono movimenti che non dipendono dalla direzione dello stimolo ma dalla struttura dell'organo che reagisce allo stimolo. Rigonfiamenti, turgori di parti della pianta (da cui il nome) permettono alla pianta stessa di reagire e di compiere movimenti. Appena però cessa lo stimolo l'organo ritorna alla primitiva posizione.
Tra le fotonastie hanno particolare importanza i movimenti di apertura e chiusura dei petali del fiore a causa del variare dell'intensità della luce e del calore. Le chemionastie possono essere provocate, nelle piante carnivore ad esempio, dalla presenza di sostanze proteiche.
Le nastie hanno grande importanza nella riproduzione: gli stami di certe specie riescono ad espellere il polline facilitandone il trasporto da parte degli insetti; gli stimmi reagiscono al contatto richiudendosi e trattenendo così il polline.
I viticci del pisello reagiscono al contatto con la superficie esterna, si inturgidiscono e determinano un movimento di avviluppamento.
La mimosa sensitiva è in grado di chiudere le foglie se queste subiscono il contatto con un corpo esterno.
La nepente, pianta carnivora, reagisce al contatto chiudendo le particolari foglie e intrappolando l'insetto.

LE MIGRAZIONI DEGLI ANIMALI

Le migrazioni animali non sono state spiegate in tutti i loro meccanismi, ma sulla base del gran numero di casi studiato si è visto che spesso sono determinate dai ritmi biologici propri della specie oppure da eventi esterni, come un aumento improvviso della popolazione, che produce una drammatica rarefazione delle risorse alimentari locali. In questo caso la migrazione è semplicemente una fuga da un ambiente sfavorevole. Vi sono poi migrazioni in cui non sembra possibile rilevare significati biologici precisi.
Gli spostamenti in massa di popolazioni animali hanno sempre interessato da vicino la vita economica delle comunità umane, e non solo di quelle con economia di caccia che sopravvivono grazie ad una precisa conoscenza delle abitudini migratorie delle loro prede, ma anche di quelle agricole. Basti pensare alle invasioni delle locuste nei terreni seminati o più semplicemente alla sciamatura delle api dagli alveari.
Le migrazioni meglio note oggi sono forse quelle degli uccelli. Naturalmente non tutte le specie hanno un comportamento migratorio ed anzi all'interno della stessa specie vi sono razze di uccelli che migrano e altre stanziali. Gli uccelli migratori sono dotati della capacità di orientarsi a distanza ed è impressionante l'abilità con cui sono in grado di raggiungere destinazioni che non possono essere direttamente viste o percepite. Tra gli uccelli si trovano le specie che coprono distanze geografiche più lunghe: il piviere dorato, ad esempio, migra per oltre 11.000 chilometri, dall'Alaska alla Guyana.
Le migrazioni degli uccelli legate alla riproduzione (al suo variare stagionale) avvengono sempre per grandi gruppi. Appena giunti a destinazione, questi si «territorializzano» e le coppie si suddividono lo spazio disponibile. Gli altri individui della stessa specie che giungono successivamente sono costretti a spostarsi in regioni vicine.
In molte specie la conoscenza della direzione generale della migrazione è innata. è il caso dello storno del Baltico. Per questa specie la direzione normale di migrazione è Sud Ovest (dal Baltico all'Inghilterra e al Nord della Francia in inverno). Si è provato a trasportare dei giovani storni alla latitudine di Genova e questi, una volta arrivato l'inverno, hanno seguito la direzione innata di migrazione, andando a svernare in Spagna. Se lo stesso esperimento è condotto con adulti della specie che hanno già compiuto una migrazione regolare dal Baltico, questi invece si muovono da Genova verso Nord per raggiungere l'Inghilterra.
Certi percorsi di specie cacciate sono ben noti (quaglia, germano reale, ecc.) anzi in ciascuna regione si conoscono da secoli i valichi ed i punti geografici preferiti dagli uccelli migranti. Anche il comportamento migratorio e il percorso della cicogna europea sono ben noti. Le cicogne migrano in due gruppi: quelle che vivono ad occidente di un'immaginaria linea geografica che unisce Leida (Olanda) e Kempten (Germania) si muovono in direzione Sud Ovest e raggiungono l'Africa attraverso la Spagna e lo stretto di Gibilterra. Le cicogne che vivono nell'Europa Orientale (ad Est di quella linea) volano invece attraverso il Bosforo (Turchia), la Valle del Giordano, il Golfo di Suez verso l'Africa Tropicale. Anche per le cicogne la scelta della direzione di migrazione è innata.
Da un punto di vista ecologico, la migrazione costituisce un indubbio vantaggio: in questo modo infatti gli animali possono utilizzare alternativamente le risorse climatiche e alimentari di località diverse. Questa sincronia di spostamenti è particolarmente presente tra specie di uno stesso genere; ad esempio il verdone scompare dalla Palestina nella prima metà di marzo ed i suoi territori sono occupati da una specie congenere (verdone giallo) che torna in Palestina in primavera dai suoi quartieri invernali.
Tra i pesci si verificano migrazioni in massa legate soprattutto alle condizioni ambientali e dirette alla ricerca di aree ricche di cibo o di località adatte alla riproduzione. Una specie di cui già nel XIX secolo sono stati studiati i comportamenti migratori anche per la sua importanza economica, è il salmone, che ha un'ampia distribuzione geografica (areale) dalla Groenlandia a Capo Cod, dal Mar Bianco al Portogallo.
Il salmone nasce nelle acque dolci e migra verso il mare; da qui torna dopo uno o due anni al fiume in cui è nato per deporre le uova. La schiusa delle uova avviene alla fine dell'inverno e gli avannotti (dal latino ab anno = «di quest'anno», sono i pesci appena nati, specialmente di acqua dolce) discendono al mare in primavera sfruttando le piene dei corsi d'acqua.
Quella che con termine tecnico si definisce la montata al fiume può avvenire in tutte le stagioni ma si effettua sempre con abbondanza di acque: è notevole la capacità che hanno questi pesci di tornare proprio nella località di origine. Con un semplice esperimento si è dimostrato che questo ritorno a casa (homing nel linguaggio dei pescatori nordici) del salmone non è innato: trasportando in un altro fiume le uova appena deposte si è visto che i salmoni tornavano a deporre le uova nel corso d'acqua dove avevano trascorso un periodo di vita come avannotti o nel fiume dove erano nati.
Tra gli insetti le locuste e le farfalle sono i gruppi che compiono le migrazioni più lunghe: possono volare per molti giorni coprendo grandi distanze. Dallo studio della distribuzione di questo insetto si è potuto dedurre che le migrazioni, che spesso hanno conseguenze drammatiche, sono legate alle correnti principali dei venti e alla piovosità dell'estate precedente. Secondo un'altra teoria la distribuzione di talune specie di cavallette nello spazio e nel tempo sarebbe determinata dalla densità delle popolazioni dei loro nemici.

L'ORIENTAMENTO

L'esistenza di molte specie animali è indissolubilmente legata a periodiche migrazioni. Ma l'animale viaggiatore per eccellenza è l'uomo. La storia dell'umanità è caratterizzata sia da gigantesche migrazioni (come le invasioni barbariche dell'Alto Medio Evo o le più recenti migrazioni da un continente all'altro di masse di lavoratori in cerca di opportunità di impiego), sia da meno appariscenti ma non meno importanti spostamenti di persone e cose da una regione all'altra per motivi commerciali o culturali.
Obbligato a viaggiare dal suo stesso successo come specie, ossia dalla sua crescita numerica e dalla grande adattabilità alle più diverse condizioni ambientali, il genere umano ha affrontato e risolto una serie di difficili problemi relativi al controllo dello spazio, a cominciare da quello dell'orientamento. Se era facile spostarsi da un villaggio all'altro, muoversi poteva diventare un'impresa quando la meta del viaggio era lontana e per giungervi occorreva superare catene di monti, fitte foreste o distese desertiche. Anche più difficile era avventurarsi in mare aperto. Qui infatti venivano a mancare quei punti di riferimento che in terraferma sono offerti da monti, fiumi, valichi, guadi, ecc.
Come orientare le carovane o le prue delle navi, quando né il terreno né il mare offrivano indicazioni circa la direzione da prendere? Occorreva un sistema di riferimento che permettesse di orientarsi in qualsiasi luogo. Il Sole, visibile ovunque sul globo terrestre, offre un tale sistema di riferimento: sorge ogni mattino da una parte dell'orizzonte e dopo avere descritto nel corso della giornata un arco di cerchio nel cielo tramonta dalla parte opposta. Si possono così definire due fondamentali punti di riferimento, indipendenti dalle particolarità del terreno in cui ci si trova: l'Oriente (dal latino oriri = «sorgere») o Est (inglese east) dove sorge il Sole e l'Occidente (dal latino occidere = «cadere») o Ovest (dall'inglese west, che ha la stessa radice del latino vesper) dove il Sole tramonta. Pensiamo ora di disporci in modo di avere l'Est alla nostra destra e l'Ovest alla nostra sinistra; la nostra fronte resta allora rivolta verso un punto dell'orizzonte che si chiama Settentrione (dal latino septentriones = «sette buoi», nome delle sette stelle dell'Orsa, composto da septem = «sette» e triones = «buoi da lavoro») o Nord (spagnolo norte, inglese north), mentre la nostra schiena è volta verso il punto opposto dell'orizzonte che chiamiamo Meridione (dal latino meridies = «mezzogiorno») o Sud (dal francese Sud, che viene dall'antico inglese suth).
Nell'emisfero boreale il miglior punto di riferimento per l'orientamento notturno (purché non ci siano nubi) è la Stella Polare, che indica il Nord con uno scarto massimo di 1 grado 14 primi. La Stella Polare è l'ultima stella del timone del Piccolo Carro (la costellazione di sette stelle conosciuta anche come Orsa minore): non è molto luminosa e può essere difficile distinguerla a occhio nudo. Nell'emisfero australe la funzione della Stella Polare è svolta dalla Croce del Sud, una costellazione di quattro stelle principali molto luminose: la costellazione, in verità, dista circa 30 gradi dal Polo Sud, ma il suo braccio più lungo ne indica approssimativamente la direzione.
In caso di cielo coperto né il Sole né le stelle possono essere d'aiuto e bisogna ricorrere alla bussola magnetica, che, basata sugli effetti del campo magnetico terrestre, è stata per secoli il più importante mezzo d'orientamento. La Terra, infatti, si comporta come se nel suo interno ci fosse un'enorme magnete diretto pressappoco lungo l'asse di rotazione terrestre. L'asse di questo magnete cioè, incontra la superficie terrestre in due punti, detti poli magnetici, che sono poco distanti dai poli geografici. Una qualsiasi calamita libera di ruotare si disporrà perciò in quella stessa direzione e, indicando il polo magnetico, indicherà approssimativamente anche il polo geografico.

LA BUSSOLA

Fin dal II secolo d.C., gli antichi Cinesi conoscevano l'azione esercitata dalla Terra su un ago magnetico; durante il Medio Evo l'uso della calamita come strumento di orientamento passò dai Cinesi agli Arabi; da costoro infine l'appresero i navigatori europei. La leggenda dell'invenzione della bussola da parte di Flavio Gioia di Amalfi è forse indizio del fatto che i primi in Europa ad adottare la bussola siano stati i navigatori amalfitani.
A parte i particolari costruttivi, perfezionati nel corso dei secoli soprattutto per la necessità di mantenere la calamita in un piano perfettamente orizzontale e di ridurre per quanto possibile l'attrito del sistema di sospensione, la bussola magnetica è ancora oggi, come in antico, costituita da una sottile calamita (l'ago magnetico) che per mezzo di delicate sospensioni è libera di ruotare in modo da tenere la sua punta costantemente rivolta verso Nord. Un quadrante su cui è disegnata la rosa dei venti completa lo strumento.
La bussola magnetica presenta alcuni inconvenienti. Innanzi tutto si dirige verso il Nord magnetico, che non coincide esattamente col Nord geografico. In secondo luogo la vicinanza di grosse masse ferrose e le tempeste magnetiche causate dal Sole possono spostare notevolmente e in modo imprevedibile l'ago magnetico dalla direzione del Nord geografico. Sulle navi moderne e sugli aerei la presenza di materiali metallici rende problematico l'uso della bussola magnetica. Nei sottomarini, poi, lo scafo funziona come schermo e la bussola magnetica non funziona affatto. Per ovviare a questi inconvenienti si usa oggi frequentemente la bussola giroscopica, strumento basato non sul magnetismo terrestre, ma sulla rotazione della Terra, e che ha perciò il vantaggio di indicare direttamente il Nord geografico anziché quello magnetico e di non essere soggetto all'influenza di materiali ferromagnetici.

DECLINAZIONE E INCLINAZIONE MAGNETICA

L'uso della bussola è complicato da due fenomeni dovuti alle particolari caratteristiche del campo magnetico terrestre: la declinazione e l'inclinazione magnetiche.
Il campo magnetico terrestre si concentra in due punti o poli che attraggono l'ago calamitato perché in certo senso costituiscono le estremità di quel grosso magnete che possiamo immaginare posto all'interno della Terra. Si tratta del Polo Nord e del Polo Sud magnetico. La direzione di questo magnete però non coincide con quella dell'asse di rotazione terrestre perché, come abbiamo già ricordato, i poli magnetici non corrispondono ai poli geografici. I primi anzi non solo sono distanziati dai secondi, ma mutano annualmente la loro posizione. L'ago della bussola, dunque ponendosi nella direzione dei poli magnetici, non sempre si dispone esattamente lungo il meridiano. L'angolo formato dalla direzione del polo Nord magnetico con quella del polo Nord geografico si chiama declinazione magnetica. Per ogni località il valore della declinazione può variare periodicamente secondo cicli più o meno lunghi e può essere occidentale o orientale. La declinazione occidentale è detta negativa e si designa mediante il segno -, e quella orientale è detta positiva e si designa col segno +. I valori della declinazione magnetica e delle sue variazioni annue sono segnati sulle carte topografiche che riportano pure in tratteggio i settori caratterizzati da eventuali anomalie.
Si è detto che l'ago della bussola poggia su di un sostegno che gli consente di ruotare orizzontalmente. Immaginiamo invece che l'ago magnetico sia appeso ad un filo. In questo caso esso non solo ruota orizzontalmente, ma subisce una ulteriore inclinazione in senso verticale: è l'inclinazione magnetica. L'estremità Nord dell'ago si inclina verso l'alto nell'emisfero australe e verso il basso in quello boreale. Si mantiene perfettamente in piano in corrispondenza dell'equatore magnetico, si inclina addirittura di 90 gradi al Polo Nord e al Polo Sud. Questo avviene perché le linee di forza del campo magnetico terrestre lungo le quali si allinea l'ago della bussola, si distribuiscono in modo da entrare e da uscire dai due poli. L'ago quindi è soggetto a due componenti: una componente orizzontale che lo orienta verso il polo magnetico e una componente verticale che tende a inclinarlo rispetto al piano dell'orizzonte.
Considerando che l'inclinazione della forza magnetica aumenta con la latitudine, la capacità dell'ago di indicare esattamente il Nord magnetico è massima all'Equatore e nulla ai Poli. Qui addirittura viene a mancare l'azione della componente orizzontale e quindi viene a mancare la condizione per il funzionamento della bussola stessa. Per ovviare a questi inconvenienti non solo l'ago della bussola è poggiato su di un perno, ma è tarato mediante un peso sistemato alla sua estremità che ne annulla l'inclinazione. A Nord dell'equatore magnetico la bussola viene bilanciata con un peso posto all'estremità dell'ago che punta verso Sud e che impedisce a quella opposta di inclinarsi. Se ci si trova nella zona dell'equatore magnetico ci si serve invece di una bussola priva di correzione, perché in quel punto l'ago rimane orizzontale rispetto al piano dell'orizzonte. A Sud dell'equatore magnetico le bussole sono bilanciate con un peso applicato all'estremità dell'ago che punta verso Nord. Ogni bussola viene tarata per la zona d'acquisto e riporta incisa la sigla corrispondente alla fascia di funzionamento; se necessario, si può modificare il bilanciamento dell'ago e rendere così la bussola utilizzabile nella regione che ci interessa.

I SISTEMI DI COORDINATE

La posizione di un punto della superficie terrestre riferita ai punti cardinali è «relativa» alla posizione dell'osservatore; ad esempio per un osservatore che si trova a Napoli, Roma sarà a Nord, mentre per un osservatore che si trova a Milano, Roma sarà a Sud. Se vogliamo la posizione «assoluta» è necessario definire un sistema di coordinate geografiche.
Se la Terra fosse una superficie piana, sarebbe sufficiente un sistema di coordinate piane, costituto da due rette (o assi) x e y, perpendicolari l'una all'altra in un punto 0, detto «origine» degli assi. Come viene mostrato nel grafico che seguirà, rispetto ad un tale sistema di riferimento un qualsiasi punto P del piano è individuato dalle due rette, una parallela all'asse y e una parallela all'asse x, che lo attraversano. Indichiamo la posizione di P sulla parallela all'asse y con la sua distanza dall'asse y, aggiungendo Est se la parallela si trova alla destra dell'asse, Ovest se si trova alla sua sinistra. Analogamente procediamo con la posizione di P sulla parallela all'asse x, aggiungendo Nord se la parallela si trova sopra l'asse x e Sud se si trova sotto. Diremo che il punto P illustrato nel grafico ha le coordinate: 3 cm Est, 4 cm Nord e questi numeri ci permettono di localizzarlo perfettamente.



       +---------------------------------------------+
       ¦                     NORD             P      ¦
       ¦                     -+- - - -  - - -+       ¦
       ¦                      ¦              |       ¦
       ¦                     -+-             |       ¦
       ¦                      ¦              |       ¦
       ¦                     -+-             |       ¦
       ¦                      ¦              |       ¦
       ¦                     -+-             |       ¦
       ¦                      ¦              |       ¦
       ¦ OVEST ---------------+----+----+----+- EST  ¦
       ¦                      ¦                      ¦
       ¦                      ¦                      ¦
       ¦                      ¦                      ¦
       ¦                      ¦                      ¦
       ¦                     SUD                     ¦
       +---------------------------------------------+

Il mondo conosciuto nell'antichità classica era limitato al Mediterraneo ed alle regioni limitrofe, specialmente verso Oriente (Mesopotamia, Persia); questa zona che è in realtà una parte della superficie sferica della Terra, è abbastanza piccola da poter essere considerata piana senza fare errori troppo grandi: e in effetti nell'antichità fu usato un sistema di riferimento piano del tipo di quello appena esposto, prendendo come origine degli assi l'isola di Rodi. Basta dare uno sguardo ad una carta geografica per accorgersi che il mondo allora conosciuto era molto più esteso da Ovest ad Est, che da Sud a Nord. Da allora fu tramandato fino ai nostri giorni l'uso di chiamare «latitudine» (cioè larghezza) la coordinata di un punto lungo la direzione Sud-Nord e «longitudine» (cioè lunghezza) quella lungo la direzione Ovest-Est.
La forma della Terra si può considerare con buona approssimazione sferica. è dunque necessario abbandonare il sistema di coordinate piane e definire un sistema di coordinate sferiche. La Terra ruota intorno a un asse immaginario (l'asse di rotazione) che taglia la sua superficie in due punti opposti detti Polo Nord, sulla cui verticale si trova il Polo Nord celeste, assai prossimo alla Stella Polare, e il Polo Sud, che si trova all'estremità opposta del globo. Ogni piano passante per l'asse di rotazione traccia sulla superficie terrestre una circonferenza che attraversa i due poli e che si chiama meridiano: nella pratica geografica si preferisce anzi spezzare ogni circonferenza in due e chiamare «meridiano terrestre» quella semicirconferenza che congiunge i due poli.
Tagliando poi la Terra con piani perpendicolari all'asse terrestre, si ottengono sulla superficie delle circonferenze di raggio diverso, tanto più piccole quanto più vicine ai Poli, dette «paralleli terrestri». Il più grande dei paralleli è l'Equatore, che è posto ad uguale distanza dai due poli e divide a metà tutti i meridiani. Sostituiamo allora alle rette x e y del sistema di coordinate piane rispettivamente l'Equatore e uno qualsiasi dei meridiani, scelto come fondamentale; in un tale sistema di riferimento un qualsiasi punto P della superficie sferica è individuato dal meridiano (che corrisponde alla parallela all'asse y del caso piano) e dal parallelo (che corrisponde alla parallela all'asse x) che lo attraversano (vedi figura).
Indichiamo adesso il meridiano con la sua distanza angolare dal meridiano fondamentale (cioè con l'angolo che il piano passante per l'asse terrestre e per il meridiano in questione forma con il piano passante per l'asse terrestre e per il meridiano fondamentale: nel caso della figura 10 gradi Ovest). Indichiamo il parallelo con la sua distanza angolare dall'Equatore (cioè con l'angolo che il segmento CP congiungente il centro della Terra C con un qualsiasi punto P del parallelo in questione forma con il segmento CP' congiungente il centro della Terra con il punto P', intersezione del meridiano passante per P con l'Equatore: nel caso della figura 40 gradi Nord). Diremo allora che il nostro punto ha longitudine di 10 gradi Ovest e latitudine di 40 gradi Nord, e queste sue «coordinate geografiche» ci permettono di localizzarlo perfettamente.
Sistema di coordinate sferiche


LONGITUDINE E LATITUDINE

Un qualsiasi punto della superficie terrestre è individuato quando se ne danno la latitudine e la longitudine, che indicano rispettivamente il parallelo e il meridiano che passano per quel punto. è chiara la necessità, soprattutto per i naviganti, di disporre di metodi rapidi e precisi per calcolare latitudine e longitudine (cioè per «fare il punto», come si dice in termini nautici) e di conoscere così con esattezza la propria posizione. Si tratta di operazioni di misura relativamente semplici.
Longitudine e latitudine si misurano in gradi (che si indicano col simbolo °): la latitudine va da 0 gradi sull'Equatore a 90 gradi Nord e 90 gradi Sud rispettivamente al Polo Nord e al Polo Sud e cresce quindi andando verso i poli; la longitudine è di 0 gradi sul meridiano che è stato scelto come fondamentale (e che è quello che passa per l'osservatorio di Greenwich, presso Londra) e cresce fino a raggiungere 180 gradi nell'antimeridiano, dove coincidono il 180esimo meridiano Est e il 180esimo meridiano Ovest. Ogni grado si divide poi in 60 primi (che si indicano con il simbolo ') e ogni primo in 60 secondi (che si indicano con il simbolo '').

LA LATITUDINE

La latitudine del punto P è la misura in gradi dell'arco di meridiano compreso tra P e l'Equatore, ovvero dell'angolo al centro PCP' che insite sull'arco. Poiché la Stella Polare si trova sul prolungamento dell'asse terrestre (tanto che nel nostro emisfero essa costituisce un ottimo mezzo per trovare il Nord) e poiché la sua distanza da noi è enorme rispetto al raggio della Terra, la retta che congiunge un qualsiasi punto P sulla Terra con la Stella Polare S (cioè la visuale condotta da P alla Stella Polare) si può considerare con ottima approssimazione parallela all'asse terrestre e quindi perpendicolare all'Equatore. Per una nota proprietà geometrica due angoli i cui lati sono rispettivamente perpendicolari, e che hanno lo stesso senso di rotazione, sono uguali: perciò l'angolo che definisce la latitudine PCP' è uguale all'angolo OPS formato dal piano dell'orizzonte passante per P (OP) con la visuale alla Stella Polare condotta da P (PS). Infatti la retta orizzontale OP è perpendicolare alla PC, che congiunge P col centro della Terra C, mentre la visuale PS è perpendicolare all'equatore CP. Il problema di calcolare la latitudine, che era per definizione il problema di misurare l'angolo PCP', si riduce così alla misura dell'altezza angolare della Stella Polare sull'orizzonte.
I due casi estremi si hanno quando la misura si effettua al Polo Nord e all'Equatore: al polo l'altezza della Stella Polare è di 90 gradi perché essa si trova esattamente allo zenit; all'Equatore l'altezza è di 0 gradi perché essa si trova sul piano stesso dell'orizzonte. Nell'emisfero australe si utilizza la Croce del Sud, ma le cose sono un po' più complicate perché la costellazione chiamata Croce del Sud non è situata sul Polo Sud celeste e bisogna perciò tenere conto della sua distanza angolare dal polo.
In ogni caso le misure sono possibili solo all'alba o al tramonto, quando le stelle sono ben visibili e nello stesso tempo si delinea nitida la linea dell'orizzonte; l'effettuazione pratica delle misure si fa usando il sestante.
Si può calcolare la latitudine anche prendendo come riferimento la posizione del Sole quando è al culmine (a mezzogiorno), ma il principio di funzionamento di questo metodo di misura è meno semplice, anche a causa della diversa posizione del Sole nelle diverse stagioni dell'anno.

LA LONGITUDINE

La longitudine del punto P è la misura in gradi dell'arco di parallelo compreso tra P e il meridiano fondamentale, ovvero dell'angolo al centro PAP'' che insiste sull'arco. La Terra compie una rotazione completa (cioè di 360 gradi) in 24 ore e quindi in un'ora compie una rotazione di 15 gradi. Questo significa che se due meridiani distano tra loro di 15 gradi essi hanno una differenza oraria di un'ora.
Su questa connessione esistente tra la longitudine e il tempo si basa un semplice metodo per la misura della longitudine. Basta disporre di due cronometri, uno regolato sull'ora di Greenwich e l'altro sull'ora locale; supponiamo che il primo cronometro segni le 9 mentre il secondo segna le 12. Ciò vuol dire che mentre sul nostro meridiano è mezzogiorno e il Sole è al suo culmine, a Greenwich mancano ancora tre ore a mezzogiorno, e siccome ad ogni ora corrispondono 15 gradi di longitudine, la nostra distanza dal meridiano di Greenwich è di 45 gradi. E poiché la nostra ora locale è in anticipo su quella di Greenwich ci troviamo esattamente a 45 gradi di longitudine Est.
Misurazione di latitudine e longitudine


IL SESTANTE

Questo apparecchio si usa puntando il cannocchiale sull'orizzonte: come mostra la figura, lo specchio S', fisso, posto davanti all'obiettivo copre metà della sua apertura, in modo che solo su una metà del campo visivo del cannocchiale appare l'orizzonte. Un secondo specchio S'' può ruotare nel piano della figura insieme con un'asta cui è fissato e che termina con un indice in grado di scorrere su un cerchio graduato C. Attraverso una doppia riflessione sugli specchi S' e S'', nella seconda metà del campo visivo del cannocchiale compaiono, a mano a mano che si ruota S'' le immagini dei punti che si trovano alle varie altezze sull'orizzonte. Il cerchio C è graduato in modo che l'indice segni direttamente tali altezze (angolari). Perciò quando nel cannocchiale compare accanto a quella dell'orizzonte l'immagine della Stella Polare, l'indice segna direttamente la latitudine.
Schema di un sestante


LE PROIEZIONI CARTOGRAFICHE

Le carte geografiche, rappresentazioni grafiche piane di una regione o dell'intera superficie della Terra, sono il prodotto di lunghi lavori che implicano la soluzione di non facili problemi. Il principale ha origine dal fatto che la forma della Terra è approssimativamente sferica; una superficie sferica infatti non può essere sviluppata su un piano (chiunque può verificarlo con una palla di gomma tagliata a metà: non riuscirà mai a «stenderla» sul piano); come si può fare allora per rappresentare la superficie della Terra su un foglio di carta piano? Bisogna evidentemente rinunciare ad una rappresentazione esatta, senza nessuna deformazione: una carta geografica è sempre approssimata. Compito della cartografia perciò è in primo luogo di studiare le possibili rappresentazioni piane di una sfera in relazione alle deformazioni causate alla sua superficie.
Sappiamo che la superficie terrestre può essere riferita ad un sistema di coordinate costituito dal reticolato dei suoi meridiani e dei suoi paralleli; perciò basta sapere come viene trasformato il reticolato in una data rappresentazione piana della Terra per conoscere il tipo di trasformazione (di deformazione) che subisce in quella rappresentazione ogni figura geografica (continente, oceano, lago, isola, fiume o strada che sia). Pensiamo allora di costruire con dei fili di ferro una sfera formata soltanto da un reticolo di meridiani e paralleli; una lampada elettrica piccola e molto luminosa proietterà su una data superficie di proiezione un'immagine (un'ombra) del reticolato diversa a seconda della sua posizione. La posizione della lampada si chiama punto di proiezione, e l'immagine proiezione.
Si possono ottenere con questo sistema diverse proiezioni.

PROIEZIONI PROSPETTICHE

Le superfici di proiezione sono dei piani e le immagini sono perciò direttamente piane. Si distinguono in:

1) centrografiche se il punto di proiezione è nel centro della sfera. Le più importanti sono:
- polare (col piano di proiezione tangente alla sfera in un polo) in cui i meridiani sono rette uscenti dal polo e i paralleli circonferenze concentriche, le cui distanze aumentano a dismisura quanto più ci si allontana dal polo (l'Equatore non è raffigurato perché proiettato all'infinito).
- equatoriale (col piano di proiezione tangente all'Equatore) in cui i meridiani sono rette parallele a distanza crescenti, l'Equatore una retta perpendicolare ai meridiani e gli altri paralleli archi di circonferenze.

2) stereografiche se il punto di proiezione è sulla superficie della sfera all'antipodo del punto di tangenza:
- polare simile alla polare centrografica, permette però anche la rappresentazione dell'Equatore.
- equatoriale permette di rappresentare in un cerchio un intero emisfero terrestre.

3) ortografiche se il punto di proiezione è a distanza infinita:
- polare simile alle polari centrografiche e stereografiche ha però paralleli sempre più ravvicinati coll'allontanarsi dal polo.
- equatoriale come l'equatoriale stereografico serve per rappresentare un intero emisfero.

PROIEZIONI DI SVILUPPO

Il reticolato è proiettato su una superficie non piana, che può essere poi sviluppata su un piano.

1) coniche: inscriviamo la sfera in un cono il cui asse passi per i poli e tangente alla superficie terrestre lungo il parallelo medio della regione che si vuol rappresentare. Apriamo la superficie conica secondo una sua generatrice: si ottiene un reticolato in cui i meridiani sono rette uscenti dallo stesso punto e i paralleli archi di cerchi concentrici.

2) cilindriche: anche in questo caso scegliamo un cilindro il cui asse coincida con l'asse terrestre; esso è tangente all'Equatore.

Se la proiezione è ortografica il reticolato, sviluppato sul piano, è rettangolare con meridiani equidistanti e paralleli che si infittiscono avvicinandosi ai poli. Questa proiezione è abbastanza fedele nel riprodurre le zone vicine all'Equatore, ma distorce eccessivamente le zone polari (i poli, puntiformi, sono rappresentati da due rette della stessa lunghezza dell'Equatore). L'allungamento dei paralleli è compensato però dal loro ravvicinamento nel senso che le aree sono proporzionali a quelle reali.
La proiezione di Mercatore è una proiezione cilindrica modificata, in cui i meridiani sono mantenuti equidistanti, mentre ogni parallelo è allontanato dall'Equatore in misura proporzionale al suo allungamento; in tal modo le forme dei continenti sono riprodotte in modo esatto. Questo si paga però con un eccessivo ingrandimento delle aree vicino ai poli. I planisferi utilizzati nel corso di questa opera sono abitualmente delle proiezioni di Mercatore.

PROIEZIONI CONVENZIONALI

Le proiezioni prospettiche e di sviluppo, puramente geometriche, sono spesso troppo deformate in un senso o nell'altro (o è troppo cambiata la forma dei continenti, o vengono troppo esagerate certe superfici o allungate certe distanze rispetto a certe altre), per poter soddisfare completamente. Si utilizzano allora delle proiezioni convenzionali costruite mediante regole empiriche che cercano di raggiungere un compromesso tra le diverse esigenze, in modo da ottenere rappresentazioni in cui le forme siano pressappoco rispettate e le aree e le distanze pressappoco proporzionali. Le difficoltà diminuiscono quanto più piccola è la regione che interessa, perché tanto più essa tende a confondersi col piano tangente in quel punto. Una proiezione convenzionale molto usata è perciò quella poliedrica nella quale la sfera viene proiettata in un poliedro con un grandissimo numero di facce trapezoidali, ognuna delle quali praticamente coincide con la piccola parte di superficie sferica cui corrisponde. Ogni faccia del poliedro è una piccola carta con paralleli e meridiani rettilinei a reticolato trapezoidale.
Tra le proiezioni convenzionali ricordiamo il planisfero di Mollweide a forma ovale; la proiezione globulare dove meridiani e paralleli sono tutti circoli; quello di Sanson-Flamsteed che mantiene la stessa distanza su tutti i paralleli e sul meridiano centrale ed è ovale ma con i poli a punta; ricordiamo infine la proiezione convenzionale di Goode che presenta una superficie tagliata a spicchi e quella di Bartholomew a forma di stella con centro il polo.

LE CARTE GEOGRAFICHE

Risolti soddisfacentemente con le proiezioni geografiche i problemi dovuti alla sfericità terrestre, la cartografia si trova di fronte a nuove difficoltà nel suo tentativo di rappresentare su un foglio di carta piano la superficie della Terra; tale superficie infatti non è perfettamente liscia, ma notevolmente «rugosa», resa accidentata da monti e vallate. Una sua rappresentazione fedele dovrebbe riprodurre anche queste sue caratteristiche, dovrebbe cioè essere un «plastico». Il problema è di rappresentare un oggetto tridimensionale su un foglio a due dimensioni.
In altri termini, se la Terra fosse una sfera liscia due coordinate (latitudine e longitudine) basterebbero a descriverla e per mezzo di una proiezione a rappresentarla sul piano; ma poiché i suoi punti non sono tutti alla stessa distanza dal centro della Terra (alla stessa altezza) per definirli occorre una terza coordinata: l'altitudine. E poiché è impossibile indicare l'altitudine per tutti i punti della superficie terrestre, ci si limita ad indicarla per quelli che si trovano a determinate quote (50, 100, 150, 200, ecc.) rappresentate sulla carta con curve di livello. Poiché le curve di livello si susseguono a intervalli regolari, per esempio ogni 25 o 50 metri di quota, possiamo valutare approssimativamente l'altitudine dei punti non quotati sulla carta e compresi tra due curve successive. Per dare poi la sensazione visiva del rilievo e della morfologia del rilievo, alle curve si associa il tratteggio e lo sfumo che sono più intensi o scuri dove è più ripido il versante montuoso.
Occorre notare che questo sistema di rappresentazione del rilievo, l'unico che sia in accordo con il punto di vista rigorosamente planimetrico o zenitale (cioè sulla verticale dell'area rappresentata), venne dapprima usato per rappresentare le profondità marine. Ciò dimostra come i progressi della cartografia siano in relazione con i bisogni della società: nel Settecento la rappresentazione esatta dei fondali marini, soprattutto in prossimità dei porti, era giudicata più importante di quella del rilievo.
L'ultimo passo preliminare al disegno di una carta è la scelta di una scala di riduzione, che per carte di regioni poco estese (e quindi poco deformate) si definisce come il rapporto tra la distanza di due punti sulla carta e la distanza dei due punti reali corrispondenti. Così la scala 1:1.000.000 indica che la distanza di 1 cm sulla carta rappresenta una distanza reale di 1.000.000 cm = 10 Km. Spesso nelle carte si dà accanto a questa scala numerica la corrispondente scala grafica che indica la distanza reale dei segmenti misurati sulla carta.
A questo punto finalmente il cartografo disegna su un foglio di carta un reticolato geografico corrispondente alla proiezione ed alla scala che vuole usare, indicando per ogni parallelo disegnato la sua latitudine e per ogni meridiano la sua longitudine. Adesso può segnare sulla carta la posizione di certi punti notevoli (ad esempio cime di monti) detti punti trigonometrici, in base alle loro latitudine e longitudine, indicandone anche l'altitudine. L'altitudine viene misurata rispetto al livello medio del mare ed è espressa in metri. Per la sua determinazione si usa il metodo trigonometrico che già conosciamo.
Sul mare, per definizione, tutti i punti hanno altitudine 0; qui però interessa conoscere la profondità del fondo marino. Per misurare queste «altitudini negative» si usavano un tempo scandagli formati da un peso metallico sospeso ad una fune graduata in metri. Oggi essi sono sostituiti da ecoscandagli (o ecometri), strumenti che emettono ultrasuoni che si riflettono sul fondo del mare e tornano indietro (fenomeno di eco) e vengono registrati dopo un tempo tanto più lungo quanto maggiore è la profondità.
Calcolate con precisione e riportate sulla carta le coordinate dei punti trigonometrici, si procede alla triangolazione per mezzo della quale si calcolano le loro reciproche distanze, e si determinano le posizioni di altri punti interessanti. La triangolazione consiste nel misurare direttamente sul terreno la distanza di due punti lontani qualche chilometro (base geodetica) e nell'unire i suoi estremi con nuovi punti emergenti e ben visibili: si ottengono così dei triangoli la lunghezza dei cui lati può essere determinata trigonometricamente; ognuno di questi lati può servire a sua volta come base di nuovi triangoli, e così via.
Quando in questo modo si è giunti a realizzare una rete di triangoli di lati relativamente brevi (2 o 3 chilometri), si effettua con la levata topografica la misurazione più minuta di distanze ed altitudini all'interno di ogni triangolo ed il disegno diretto degli elementi di interesse geografico. Il cartografo ha così finito il suo lavoro e cede il posto al disegnatore, che ha il compito di riportare sulla carta per mezzo di simboli i dati del cartografo: gli elementi geografici, come mari, laghi, fiumi, paludi, catene montuose ecc. e inoltre strade, ferrovie, ponti, villaggi, città, aeroporti ecc. sono infatti rappresentati simbolicamente da segni e colori convenzionali.
Ciò significa che la carta nasce dall'unione di due linguaggi o di due sistemi di segni non omogenei fra loro. Il primo che costituisce la trama della carta è un linguaggio geometrico che nella sua astrazione consente di indicare, nel modo che si è visto, posizioni, distanze, superfici, figure. Il secondo è il linguaggio dei simboli e dei segni che hanno il compito di rappresentare alle varie scale le caratteristiche dei luoghi che non sono di semplice ordine geometrico-topologico: cioè il fatto che un luogo determinato nella sua posizione dalle coordinate astratte sia in concreto una città, una sorgente, un bosco, ecc. Rispetto al primo il secondo linguaggio è del tutto arbitrario e eterogeneo e infatti per essere capito ha bisogno della legenda, il luogo della carta dove i simboli e i segni cartografici sono spiegati.
Oggi nella costruzione di carte si utilizza sempre più la foto aerea, che riesce ad evidenziare, con tecniche o punti di vista particolari, elementi del territorio altrimenti difficilmente rilevabili.
La carta e il punto di vista del cartografo sono sempre stati assimilati al punto di vista degli Dei o degli uomini-uccello come il mitico Dedalo. è quindi naturale che non appena l'uomo imparò a sollevarsi dalla superficie terrestre pensò subito ad applicazioni cartografiche. Ciò avvenne in concomitanza con l'invenzione della macchina fotografica. Uno dei primi grandi fotografi, Nadar (pseudonimo del francese Gaspard Félix Tournachon, 1820-1910) appassionato di volo aereostatico, propose fin dalla metà del secolo scorso un piano di cartografia catastale impiegando la foto aerea. Il metodo allora proposto venne perfezionato e sistematicamente impiegato solo nel nostro secolo. Oggi siamo in grado di produrre carte topografiche in maniera quasi automatica elaborando le foto aeree prese con criteri che garantiscono la lettura stereoscopica, cioè grazie alla sovrapposizione di «strisciate» prese a distanze e intervalli regolari.
Il tradizionale lavoro del topografo svolto in larga misura all'aperto, sul campo, si riduce ormai al lavoro a tavolino sulle foto aeree compiuto con l'ausilio di macchine sofisticate che inquadrano il territorio nella trama geometrica per tutte e tre le dimensioni. Se il lavoro si riducesse a questa restituzione geometrica il processo di lettura potrebbe anche escludere l'uomo. è quanto avviene con l'ortofotopiano che è una fotografia da bassa quota corretta nelle sue deformazioni e completata dalla trama geometrica. è un tipo di carta che per certi versi è più leggibile e più ricca di una carta tradizionale soprattutto se applicata a città come Venezia. La foto aerea ha tuttavia bisogno di essere interpretata con una capacità di lettura e una sensibilità che la macchina non ha e che si può acquisire solo conoscendo direttamente il territorio rappresentato o confrontando sul terreno la foto con gli oggetti materiali e il paesaggio. Anche i procedimenti più avanzati non possono fare a meno del cosiddetto collaudo o verifica sul terreno. Inoltre alcune informazioni si possono raccogliere solo sul terreno, come quelle relative alla toponomastica, o alle essenze vegetali presenti in un bosco, ecc.
A piccola scala grandi risultati si possono ottenere con il cosiddetto telerilevamento o rilevamento da satellite che è oggi di largo impiego nella meteorologia, nelle prospezioni geologiche, nella sorveglianza o spionaggio militare e anche, per esempio, nella valutazione dei raccolti di grano (elemento importante per condizionare il mercato).

LE SCALE GEOGRAFICHE

In cartografia si chiama scala rapporto fra una lunghezza presa sulla carta e la corrispondente lunghezza naturale. La scala di una carta può essere indicata graficamente mediante un tratto rettilineo suddiviso in segmenti uguali, ciascuno dei quali ha un valore definito (1, 10, 100, 1000 km): si parla allora di scala grafica. Le scale numeriche sono costituite invece da una frazione che al numeratore ha 1, e al denominatore l'indicazione di quante volte la distanza presa sulla carta deve essere moltiplicata per ottenere la corrispondente distanza sul terreno. La scala 1:1000 sta a indicare che un centimetro sulla carta equivale a mille centimetri sul terreno. Una carta è a grande scala quando il denominatore è piccolo, ed è a piccola scala quando il denominatore è grande. Una carta a scala 1:1000 è una carta a grande scala; una carta a scala 1:1.000.000 è invece a piccola scala.
Si dicono geografiche le carte con scale inferiori al milionesimo: si usano per grandi spazi sommariamente descritti. Le carte corografiche (dal greco chòros = «terreno» hanno scale comprese tra 1:250.000 e 1:1.000.000 e servono per rappresentare regioni estese. Le carte topografiche (dal greco topos = «luogo») hanno scale comprese tra 1:10.000 e 1:250.000. Piante, mappe, planimetrie hanno scale superiori a 1:1000 e rappresentano in dettaglio porzioni di terreno limitate.

CARTOGRAFIA E POTERE

La definizione di carta geografica suona all'incirca così: «rappresentazione grafica piana, ridotta, simbolica e approssimata delle caratteristiche della superficie terrestre o di una sua parte». La rappresentazione cartografica è approssimata perché una superficie sferica non si può sviluppare su un piano, è simbolica perché gli oggetti geografici non sono rappresentati come li vediamo ma mediante simboli, ed è ridotta perché non si può ragionevolmente pensare a una carta che abbia le stesse dimensioni del territorio che deve rappresentare.
Da questa definizione è però difficile capire quali e quanti problemi stanno sotto la rappresentazione cartografica e di solito nessuno ne parla. Non ne parlano i giornali o le riviste o la televisione, che adoperano le carte come se fossero cartoline. Di solito non ne parlano neppure i libri di scuola che per lo più oscillano tra usare le carte come semplici illustrazioni a colori e offrirle al lettore come documentazione oggettiva, neutrale, incontrovertibile. Non ne parlano soprattutto le numerose istituzioni (comuni, regioni, ecc.) a cui spetta il governo del territorio e che pure, svolgendo questa funzione, sono tenute a sollecitare periodicamente la partecipazione dei cittadini alle decisioni relative a piani regolatori urbani, a piani paesistici, ecc. Tutti, insomma, sembrano presupporre nella gente comune una capacità di interpretare i documenti cartografici, che invece non c'è, e che talvolta fa difetto perfino agli addetti ai lavori: sindaci, assessori, tecnici della programmazione.
Così, per esempio, è raro che il cittadino qualunque rifletta da solo sul fatto che il linguaggio simbolico della carta finisce sempre per privilegiare certi oggetti a spese di altri, e cioè che esso implica una scelta degli oggetti geografici e una gerarchia delle cose da rappresentare, che non sono affatto neutrali, ma rispecchiano inevitabilmente gli interessi di chi è preposto alla produzione di carte. Spesso la produzione cartografica è affidata alle autorità militari, non perché i militari siano tecnicamente meglio attrezzati di altri, ma perché la carta è tradizionalmente considerata uno strumento per fare la guerra, e perché le esigenze della guerra sono sempre state considerate preminenti su quelle della pace.
Non ci si deve perciò stupire se su carte anche molto particolareggiate non si riesce a trovare la localizzazione di installazioni militari, o la precisa rappresentazione di certi stabilimenti industriali o di certe infrastrutture come porti, aeroporti, nodi ferroviari, ritenuti di interesse strategico. Non si tratta di errori o di lacune dovute a negligenza, ma di censure, che si possono manifestare anche in più o meno abili camuffamenti: aereoporti che diventano vigneti, arsenali che diventano giardini, aree industriali che diventano aree agricole ecc. Naturalmente questi interventi sono oggi meno frequenti di una volta, perché l'osservazione da aerei o satelliti spia li ha resi perfettamente inutili. Ma chi studia la storia di un territorio e utilizza vecchie carte ne deve tenere conto.
Allo stesso modo di rado il cittadino comune riflette sul fatto che il problema della scala è ben più complesso di quanto ci può suggerire l'usuale classificazione delle carte in topografiche, corografiche (o regionali) e geografiche. In esso risiede una delle chiavi principali del ragionamento geografico. Le differenze di scala, infatti non implicano soltanto delle differenze quantitative, ma anche qualitative. La combinazione di elementi che si presenta quando si osserva uno spazio a una determinata scala non è la stessa che si presenta a una scala maggiore o minore. La cosa non è certo senza conseguenze quando si studia la destinazione di un territorio, si decidono interventi di trasformazione o si impongono vincoli a quanti vi abitano.
La carta geografica riflette i modelli di potere e i rapporti di forza nella società e spesso ne è, più o meno consapevolmente, la celebrazione e l'apologia. Perfino una «innocente» carta turistica è innanzi tutto la rappresentazione del «paesaggio del potere». Ne adotta infatti il punto di vista a preferenza di altri che pure sarebbero possibili: quello del contadino, per esempio che non vede mai la campagna come «paesaggio», perché vi vive in mezzo e la percepisce come prodotto o strumento del proprio lavoro quello dell'operaio che ha sperimentato la fabbrica o il cantiere da dentro e vi ha vissuto secondo una logica totalmente diversa da quella del progettista e dell'architetto o quello del soldato, che la guerra l'ha vista dal basso, strisciando in terra, in un'ottica del tutto capovolta rispetto a quella dei generali. Suggerendo come ovvie tappe del suo viaggio i luoghi in cui il potere si è autocelebrato (monumenti, santuari, palazzi, ecc.) e le sedi in cui si è organizzato ed espresso, la carta conduce il turista nella maniera più «naturale» e «innocente» ad una rivisitazione edificante dell'itinerario storico del potere.